Meglio un’azienda dove si cambia molto o dove si cambia poco?

Oggi è stato l’ultimo giorno lavorativo di un nostro dipendente che ha deciso di intraprendere una nuova avventura professionale. Aldilà del rammarico personale, che naturale sorge quando una persona che stimi decide di lasciare, l’occasione per me è stata quella di fissare un po’ le idee sui motivi che spingono una persona a cambiare lavoro e sul minus o plus valore del cambiamento.
1)      Perché si cambia lavoro?
Esistono due grandi sfere di ragioni, la sfera personale e quella professionale, se i motivi rientrano nella prima sfera, sicuramente non vi possono essere ragionamenti di merito o di giudizio. La persona umana, con le sue complessità, i suoi limiti può essere inserita anche nel miglior contesto lavorativo, ma se ci sono delle ragioni “private”, non ci sono rimedi, il contesto lavorativo seppur intenso ed importante è pur sempre al servizio dell’uomo. Dispiace punto e basta.
Se il cambiamento è dettato da ragioni lavorative (sia esso dal lato azienda piuttosto che dal lato del lavoratore), le spiegazioni sono una non sintesi, fra le esigenze aziendali e le aspirazioni del singolo. La maggior parte delle aziende del nostro contesto economico non hanno e non possono dotarsi di personale  completamente dedicato alle risorse umane, risulta quindi molto difficile capire “lo stato dell’arte” delle risorse in azienda, perché spesso si tende a sottovalutare il continuo ma naturale compromesso che ogni giorno avviene fra aziende e lavoratori.
2)      Una dimissione anche di un valido collaboratore è sempre negativa?
No perché:
A) ogni azienda ha esigenze diverse che variano senza soluzione di continuità nel tempo ed una risorsa che potrebbe essere perfetta per un’azienda potrebbe essere non proficua in un altro contesto o all’interno della stessa realtà potrebbe passare da indispensabile a superflua.
B) tutte le scelte di discontinuità come lo sono i cambiamenti generano occasioni di confronto e di riflessione che potrebbero confermare e quindi rafforzare le strategie aziendali, come invece portare ad una loro modifica. L’importante è che l’analisi sia lucida, basata su fatti e senza digressioni emozionali.
C) la dimissione di un collaboratore è spesso anche un segnale indiretto, di un contributo che l’azienda ha portato al lavoratore per una sua crescita ed ad una sua maturazione, tanto da renderlo adatto ad un nuovo progetto od una nuova sfida.
3)      Meglio un’azienda dove si cambia molto personale o dove se ne cambia poco?
Una risposta assoluta non esiste, ma vorrei soffermarmi sugli aspetti positivi dei cambiamenti.
a)       dove ci sono cambiamenti, ci sono più stimoli.
b)      una maggior rotazione porta ad un maggiore scambio di conoscenze e ad una maggior circolazione di informazioni.
c)       Le nuove risorse spesso mettono in discussione comportamenti e processi consolidati creando un contesto dinamico dove l’apprendimento e la crescita possono trovare sbocchi significativi.

Detto questo ritengo che la chimera del “lavoro per tutta la vita” appartenga ad un tempo passato che non esiste più, ma penso sia altrettanto importante creare una continuità aziendale per sedimentare culture, processi, approcci e conoscenze. La difficoltà sta proprio nell’individuare i protagonisti con i quali costruire questa sintesi fra continuità e cambiamento. Il processo fondamentale non è però solo la selezione, ma il mantenimento e la motivazione delle risorse. In quest’ottica anche una dimissione non deve creare alibi ma alimentare occasioni di riflessione ed opportunità di crescita.

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